Saverio La Ruina porta in scena “Via del popolo” a San Lorenzo in Campo e Arcevia: «Borghi senza più relazioni»

«Racconto lo spopolamento, fenomeno comune a tutta Italia, ma non è un’operazione nostalgia»

L’attore drammaturgo e regista teatrale Saverio La Ruina
L’attore drammaturgo e regista teatrale Saverio La Ruina
di Elisabetta Marsigli
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Giovedì 14 Marzo 2024, 02:15 - Ultimo aggiornamento: 11:31

Vincitore del Premio Ubu 2023, “Via del popolo” di e con Saverio La Ruina è in programma in due teatri delle Marche: venerdì 15 marzo ore 21,15 al Teatro Tiberini di San Lorenzo in Campo (0721 849053) per TeatrOltre a cura di Amat, e domenica 17 marzo, ore 17 al Teatro Misa di Arcevia (334 1684688) nell’ambito della Stagione di Prosa con la direzione artistica del Teatro Giovani Teatro Pirata. Con questo spettacolo, l’attore drammaturgo e regista teatrale Saverio La Ruina tocca uno dei temi più cruciali, attuali e molto sentiti delle aree interne del nostro Paese: lo spopolamento dei borghi e il diradamento delle preziose piccole attività commerciali e di una umanità sociale e produttiva. 

Uno spettacolo su una comunità che cambia, fenomeno che hanno in comune sia il nord che il sud?

«Sono anche delle situazioni che si declinano in modo diverso, il cambiamento è in atto ma è già avvenuto. Al sud assisti ancor di più a uno spopolamento dei piccoli centri, ma è un fenomeno comune ovunque nelle province italiane. La fine di questi luoghi ha decretato anche la fine delle relazioni e ho vissuto questo nel mio paese, Castrovillari. Questo spettacolo è nato una sera, mentre guardavo la mia via dal terrazzo di casa mia: c’erano si e no 3 o 4 luci accese, mentre una volta brulicava di gente».

Castrovillari, non è dunque un mondo a parte?

«In quella via c’era un grande cinema, il fioraio, una trattoria, tre alimentari: era una traversa della via principale. Era una via piena di vita e relazioni. Nello spopolamento si è perso anche l’artigianato. Le città diventano sempre più grandi e le campagne sempre più deserte. So che anche nelle Marche succede, ma rimango sempre incantato e stupito dalle vostre zone bellissime».

C’è anche una riflessione sul tempo, il tempo che corre ma che non dobbiamo rincorrere, piuttosto trascorrere.

«Ci sono dei tempi diversi nello spettacolo, tra il racconto e il qui e ora, ma si riflette anche su come era vissuto quel tempo dai personaggi che resuscito, tra cui c’è anche mio padre, che ha un’estensione maggiore.

Il tempo del passato era più un trascorrere e viverlo così, a volte, ti salvava anche».

Cosa tenersi dentro del passato per affrontare il futuro?

«Non vorrei che il mio lavoro sembrasse un’operazione nostalgica, ma una riflessione su una comunità che esisteva e si rinnovava. Mi chiedo quanto, nelle trasformazioni che avvengono nelle grandi città, si tenga conto di mettere al centro l’uomo? È una grande sfida che rischia di portare verso la solitudine maggiore. Ho la fortuna di portarmi dentro anche quello che mi ha preceduto: i racconti, trasmessi da mio padre e da mio nonno, che ti creano una base. Sarebbe bello che i nostri ragazzi avessero la possibilità di partire da quelle basi, trasmetterle, averle comunque dentro».

E lei cosa porta dentro di sé dei grandi maestri con cui ha iniziato la sua carriera, da Leo De Berardinis a Jerzy Sthur, Nekrosius?

«Sento sempre vivo il loro insegnamento: con Leo anche il suo lavorare giocando ad abbassare l’alto, mescolando le cose. Da tutti loro, ma anche Remondi e Caporossi, ho preso qualcosa, ma aggiungendo la mia cifra personale, fatta anche di tradizione orale, di quel cunto narrato da persone inconsapevoli di essere dei grandi attori, ma che ti tenevano avvinto dai loro racconti. Nel mio lavoro è importante tenere viva sempre quella semplicità».

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