Le pagine economiche dei quotidiani della scorsa settimana sono state dominate da alcuni fatti fra loro scollegati ma dai quali provo a trarre una riflessione che li accomuna: da una parte le proteste degli agricoltori, dall’altra le cessioni a gruppi esteri di alcune grandi imprese. Parto dagli agricoltori. Come ha notato Edoardo Danieli nel fondo di venerdì scorso su questo giornale, la protesta ha degli aspetti paradossali. Per anni abbiamo sostenuto che l’agricoltura nel nostro paese dovrebbe puntare sulla qualità e sul rapporto con la tradizione rifuggendo dall’omologazione e dal produttivismo. Non è chiaro quindi perché opporsi alla limitazione nell’uso dei fitofarmaci o a regole più stringenti nella rotazione delle colture. A nessuno piacciono le costrizioni ma queste sembravano andare nella direzione auspicata, oltre che nell’interesse di consumatori e ambiente. In realtà la protesta degli agricoltori è motivata soprattutto da ragioni economiche. Va in questa direzione la richiesta di esenzione dall’IRPEF per i redditi agricoli.
L’esenzione sarà totale per i redditi fino a 10.000 euro e parziale per quelli fra i 10.000 e i 15.00 euro. Si tratta di redditi dominicali e agrari, cioè presunti. Vi è da sperare che quelli effettivi siano più alti, anche se il risultato sarà comunque quello di esentare dalla contribuzione fiscale una vasta platea di contribuenti. L’agricoltura pesa intorno al 2% del PIL per cui possiamo permettercelo. In questo modo si asseconda la sopravvivenza di operatori economici a basso reddito e bassa produttività. In Italia questa condizione è più diffusa che in altri paesi. All’ultimo censimento dell’agricoltura (2021) risultavano 1 milione e 133 mila aziende agricole che utilizzavano 12,5 milioni di ettari di superficie agricola. Il 40% delle aziende agricole lavora meno di 2 ettari e i due terzi meno di 5. Nel nostro paese questa elevata frammentazione non riguarda solo l’agricoltura ma si estende a tutti i settori. All’ultimo censimento dell’industria e dei servizi (2021) risultavano attive 4 milioni e 300 mila imprese con meno di 10 addetti. La media di occupati per impresa era di 1,8 e la gran parte aveva un solo un addetto.
Si tratta degli ultimi casi, sempre più frequenti, di cessione totale o parziale di imprese italiane a gruppi esteri. Le imprese italiane, anche quelle grandi, hanno dimensioni decisamente inferiori ai grandi gruppi esteri e anche per questo figurano quasi sempre come prede piuttosto che predatori. E avvenuto così in molti settori, fra cui il lusso, l’automotive, l’elettrodomestico, ecc.; finiamo per rimanere bravi produttori all’interno di strategie commerciali decise altrove. Da decenni nel nostro paese aumenta la quota di occupati in imprese di piccolissima dimensione che chiedono di essere sostenute per poter sopravvivere; allo stesso tempo si indebolisce il tessuto delle grandi imprese, nella distrazione generale. Ben venga la vivacità imprenditoriale di chi intende mettersi in proprio ma alla lunga una quota eccessiva di occupati in imprese e attività a bassa produttività è insostenibile. Non solo per le minori opportunità di crescita individuale, come testimoniato dal crescente numero di giovani che emigra, ma perché mette in discussione la possibilità di mantenere i livelli di welfare fin qui raggiunti e di continuare a sostenere politiche assistenziali verso i settori deboli.
*Docente di Economia
all’Università Politecnica delle Marche e coordinatore
della Fondazione Merloni