Troli sceneggiatore con Garrone
«Vi racconto come è nato Dogman»

Giulio Troli a sinistra insieme al documentarista Italo Moscati e, a destra, il regista Matteo Garrone
Giulio Troli a sinistra insieme al documentarista Italo Moscati e, a destra, il regista Matteo Garrone
di Laura Ripani
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Mercoledì 23 Maggio 2018, 11:55
SAN BENEDETTO - Le Marche a Cannes hanno avuto il volto di Giulio Troli. Ventisette anni, figlio del presidente dell’Amat, Gino, il giovane sceneggiatore sambenedettese ha co-firmato, nei titoli di coda, Dogman. Scelto dal regista Matteo Garrone, oramai collabora stabilmente con il maestro insieme al quale sta già realizzando un altro film di prossima uscita, Pinocchio. 
Come è nata la collaborazione?
«L’ho incontrato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e gli ho lasciato il mio contatto. Mi ha richiamato perché gli serviva “un ragazzo di bottega” e ho offerto la mia disponibilità».
Qual è stato il primo incarico?
«Mi ha chiesto di trovare un’idea per il prossimo film. Un giorno aveva sul tavolo una vecchia sceneggiatura. Erano 10 anni che stava lì. Si intitolava l’Amico dell’uomo, me l’ha fatta leggere e poi mi ha chiesto cosa ne pensavo. Io l’ho letta prima di andare a lezione, tutta d’un fiato...».
E poi?
«E poi sono entrato nel suo gruppo. Per me è stata una grande palestra. Mi sono accostato con molta umiltà, ci sono ragazzi molto bravi come ad esempio i fratelli Di Innocenzo che hanno debuttato come registi».
Veniamo a Dogman. Un successo.
«A dir la verità fino a questa stesura definitiva Garrone non riusciva a trovare il cast. Violenze e tortura, non era facile...».
E per fortuna...Marcello Fonte ha vinto la Palma come miglior attore!
«Infatti è un grande maestro. Lui non si accontenta mai. Per Pinocchio, ad esempio, ha anche contattato grandi tecnici per gli effetti speciali, chi ha lavorato a Harry Potter. Circa Fonte lui è bravissimo. Viene da una piccola realtà teatrale di provincia, ma Garrone un po’ come Pasolini, è riuscito a trovare un attore straordinario non certo tra i mostri sacri dello star system».
Beh, Cannes vuole distinguersi.
«Mah. Io trovo il glamour anacronistico anche se devo dire che il red carpet lo possono calcare tutti».
Anche lei in passerella?
«Sì, ripeto: è possibile passeggiare sulla Croisette, per tutti. Poi ovviamente la stampa si occupa di chi vuole...Ma il bello sono proprio i film, importanti e impegnati, che non avrebbero altri palcoscenici, non sono adatti alla cassetta».
Ha avuto paura nel raccontare questa storia? È un testo forte e non è fiction.
«A dir la verità non è cruenta come sembra. Cioè sì, lo è il fatto di cronaca la vicenda del Canaro che terrorizzò l’Italia negli Anni Ottanta con l’efferato omicidio (le presunte torture furono poi smentite dall’autopsia ndr) del pugile. Ma è soltanto un punto di partenza, uno spunto. Il cuore del film è il racconto della storia di un uomo, dell’uomo».
Come l’ha toccata il personaggio? 
«Un po’ mi sono davvero immedesimato. Il pugile sembra essere la vittima ma in realtà era lui che stalkizzava un uomo dall’indole pacifica che alla fine si stanca delle vessazioni...D’altra parte Ulisse e Polifemo è un archetipo di cui mi sto occupando proprio nella mia tesi in Lettere che sto per discutere alla Sapienza e sarà sul mito dell’eroe».
Garrone ci ricasca un po’ come Gomorra, gioca sul filo...
«Tra buoni e cattivi? Questo film più che altro è una sorta di western urbano».
E quanto ha contato, suo padre, Gino, nella sua scelta?
«La mia passione per il cinema è colpa di Gino (lo chiama per nome ndr) come dice mia madre. Ma per me però il cinema è intrattenimento puro, mentre lui viene dal Cineforum, capirà. Non siamo certo uguali...».
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