Riscoprire con un tocco di modernità
i sapori antichi della cacciagione

Riscoprire con un tocco di modernità i sapori antichi della cacciagione
di Véronique Angeletti
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Sabato 4 Novembre 2017, 16:09
Nuove sensibilità impongono che se ne parli poco. Ma nella memoria dei sapori rimane sublime e gustosa. È il mondo della selvaggina fatto di quaglie, lepri, cinghiali, caprioli e cervi congelati ma che una volta era di beccacce, pernici, cornici, starne, allodole catturate in loco. Un mondo antico, in cui la caccia era cibo, celebrato in locali dove la cucina era un tempio da frequentare d’autunno. Come quella di Agnese Pazzaglia, regina di “Ghighetta” ad Apecchio, meta dei buongustai mezzo secolo fa.

Il salmì del prete
Cuoca conosciuta per il suo arrosto condito con olio, rosmarino e salvia, di coniglio, piccione, quaglia, faraona e fagiano di cui le carni, dopo aver scartate le ossa, si tagliano a pezzi. A fare la differenza, il passaggio nel tegame di coccio con le carni messe a strati, condite con un trito di salvia, prosciutto crudo a dadini, bacche schiacciate di ginepro, capperi e bagnate con un mix olio-aceto. Metodo che trasforma l’arrosto del cacciatore nel “Salmì del Prete”, piatto prelibato eletto due anni fa a denominazione comunale e che da quelle parti quattro ristoranti autorizzati servono con una birra scura. Oggi, nei menu fissi è raro trovare la selvaggina. La legge detta della caccia, in realtà a difesa della fauna selvatica, limita gli chef che la cucinano spesso solo su richiesta e in esclusiva per il cacciatore buongustaio che gli consegna la sua preda. Il piatto si veste allora di una cucina colta che ha poco da spartire con le lunghe marinate, le salse pesanti e le cotture aggressive della cucina dei focolari. Propongono carni morbide, rosate, rosolate secondo il taglio, insaporite con erbe spontanee, bacche di ginepro, foglie d’alloro e a volte pure con il cacao. Il trucco risale alle tavole del Medioevo. «Esalta il sapore, lo metto nella farina delle mie pappardelle al sugo di lepre» svela Alberto Melagrana del ristorante “Antico Furlo” di Acqualagna, dove la selvaggina va a braccetto con il tartufo. Consiglia 60 grammi per ogni chilo di farina.



Fauna e terroir
Lucio Pompili, è il conclamato esperto chef della selvaggina nelle Marche. Autore del libro “A caccia di sapori”, racconta di Pompili medesimo, con la doppietta a tracolla, in giro per boschi e stagni, dal Monte Catria al Nerone, dal Kazakistan alle steppe della Mongolia. Come Marco Polo, si è costruito una sua personale “via della seta” all’inseguimento di prede speciali in luoghi insoliti dove le ha cucinate fedele alle usanze del posto. Sostiene che il sapore dell’urogallo, il nostro gallo cedrone, cacciato in Kirghizistan a 4mila metri e cotto al momento, non teme paragoni. Con lo stesso slancio che gli è valso una stella Michelin al “Quattro stagioni Symposium” boccia in tronco la «lunga frollatura» perché «una volta, la caccia era l’attività per cibarsi e nessuno aveva il tempo di aspettare». Riconosce che la selvaggina è una cucina complessa, che deve riservare ad ogni taglio la sua specifica cottura, ma ricorda che va affrontata senza manierismo privilegiando la semplicità e chiede di ragionare per esaltare quello stretto legame, troppo spesso dimenticato, della preda con i profumi del territorio in cui si è cibata, è cresciuta ed è stata catturata. Il che spiega il perché la carne della selvaggina abbia un diverso sapore. Ma la sua qualità varia ovviamente in ragione dell’età, del sesso e dello stato di salute dell’animale, dipende anche dal tipo di ferita che lo ha ucciso e dall’adeguata conservazione. In un animale inseguito a lungo scompare il glicogeno che dà morbidezza alla carne, aumenta l’acido lattico, entrano in circolo ormoni come l’adrenalina. «La sua bontà - affermano i cacciatori cortesi - inizia fin dal momento dello sparo».

Specialità al cinghiale
Mario e Massimiliana Morettini della “Bottega della Carne” a Serra San Quirico ne sono consapevoli. Sono proprietari di una macelleria ereditata negli anni ‘60 che cela segreti e sfiziose eccellenze. Sono tra i rari a produrre salame di cinghiale, stagionato in grotta 40 giorni, e salsicce secche perfette al 35 esimo. «Finora - spiega - il cinghiale non m’interessava. Poi il Parco della Gola della Rossa e di Frasassi mi ha assicurato che i selezionatori non usano piombo, che la preda è subito eviscerata e portata al centro specializzato in selvaggina, il mattatoio di Sassoferrato, e che posso scegliere la bestia. Pertanto ho deciso di dedicare parte del mio laboratorio alla produzione di insaccati di cinghiali». Lavorano anche on line e www.ibuonisaporidellemarche.it si è conquistato una discreta nomea con clienti perfino in Sicilia.



La famosa beccaccia firmata da Lucio Pompili
Ha una bella storia la “Beccaccia alla Santa Alleanza” di Lucio Pompili. Ricetta di Escoffier ritrovata dal compianto Franco Colombani. È la storia di un fagiano farcito con paté di beccaccia che Pompili ha stravolto farcendo la beccaccia con petto di fagiano e cotta allo spiedo, in piedi, con salsiccia e foie gras. Però qualcosa non gli piace. A quel punto toglie petti, stacca filetti, coscette e taglia il becco in due. Fa un paté con due foglie di salvia, due bacche di ginepro, poca cipolla e rosola nel burro il ventriglio bagnato con brandy che passa al setaccio. Rosola coscette e becchi con alloro, olio, 10 minuti con Armagnac e due minuti i petti, timo lato pelle, e i filetti. Porta a tavola trasformando in crostino fette di pane di montagna fritte nel burro sul quale mette un cucchiaio di paté, adagia il filettino, le coscette e i petti, irrora con la salsa di cottura e guarnisce con salvia. La commenta mentre sta in Croazia. «È una settimana che sono qui. Caccio 6 ore al giorno ne ho incontrate 5, sparate 3 e prese nemmeno una. Animali difficili, le beccacce. Il gusto è lì!».
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