Da piatto popolare ad alimento cult:
è davvero la polenta delle meraviglie

Da piatto popolare ad alimento cult: è davvero la polenta delle meraviglie
di Véronique Angeletti
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Sabato 9 Dicembre 2017, 12:45
Femmina, la polenta è una generosa matrona. Ama tutte le farine. Quella di mais, di farro, di grano saraceno, d’orzo, di miglio e di castagne e non disdegna quella di fave e pure di fagioli. Da secoli, se le sposa con abbondanza d’acqua, di preferenza in un paiolo di rame, abilmente girata da un mestolo in legno di nocciolo. Unico difetto richiede una santa pazienza che sui nostri Appennini non gli è stata mai negata né sui monti né sotto la cappa del camino. Ieri era il piatto del povero, oggi è un cult con cui toques stellate amano giocare sul sicuro con i condimenti della tradizione e con audacia, ma è anche uno di quei rari piatti con la “P” maiuscola, perché la polenta oltre ad essere sapori è storia di comunità e crocevia tra imperi.
 
Mais o farro
La colpa è di quei quattro chicchi di mais che nel 1658, di ritorno dalle Americhe, il nobile Pietro Gaioncelli scoprì nel fodero della sua spada e piantò in Val Camonica. Anche se fu solo ad inizio ‘800 che il mais diventò il sostentamento della popolazione italica. Ciò nonostante il suo grave limite nutrizionale: quello di rendere indisponibile per l’organismo la vitamina B3 e provocare la patologia detta pellagra. Problema superato dai Maya ed Aztechi consumando il mais cucinandolo dopo averlo immerso in un bagno di acqua e calce e rendendo di nuovo assorbibili le vitamine. Però se mentre al di là dell’oceano, fin dall’età del ferro, padroneggiava il mais, in Europa, prima del dominio del pane, l’impero romano si nutriva di “puls” ossia di polenta di farro o di fave.


 
Il farro nelle Marche
Il farro, «il primo cibo dell’antico Lazio» come scrisse Plinio, tra i cereali è il simbolo delle Marche. Lustri fa Leila Segoni, con la madre Lea dell’azienda agricola Monterosso, scelsero di riportare in purezza l’antico seme “Triticum dicoccum” con il Centro di ricerca e sperimentazione per il miglioramento vegetale di Macerata (Cermis) ottenendo nel 2009, dal Ministero delle Politiche agricole, il brevetto “Monterosso Select” idoneo per la pastificazione. «Dall’inizio - spiegano le imprenditrici - abbiamo dedicato parte dei nostri 600 ettari, a cavallo tra Arcevia, San Lorenzo in Campo e Sassoferrato, alle colture biologiche. Un lavoro potenziato da numerose certificazioni per l’esportazione, tra cui quella Kosher, e premiato dalla Regione che ha individuato nel nostro seme «il farro delle Marche». E poi all’Expo 2015 il riconoscimento dalla Cia come «migliore rappresentante nazionale nella produzione e trasformazione del farro». L’azienda, presente anche nei supermercati, propone farro perlato, spezzato e declina la farina, macinata nel proprio mulino a pietra, in vari tipi di pasta. Altro primato, per promuoverne la conoscenza, ha dedicato al cereale “La Farroteca”, unico in Italia a proporre menù a tutto farro, che consiglia una polenta di stagione al tartufo e ai funghi porcini. «Farina di farro bramata - svela Lea Luzi - ottenuta con un litro di acqua, due etti di farina di farro e sale condita con un soffritto di cipolla, in burro ed olio, funghi porcini a lamelle e tartufo nero» (azienda agricola Monterosso 0721776511).


 
Il Mays di Roccacontrada
Non a caso dall’altra parte delle colline, a Magnadorsa di Arcevia, ci sono le coltivazioni di Marino Montalbini, agricoltore custode del “Mays ottofile di Roccacontrada”, antico nome della città. In giro per l’Italia conquista i buongustai con una pannocchia dai colori rosso, arancio e giallo che, macinata a pietra, si trasforma in una farina dall’odore delicato ma dall’aroma intenso e dal sapore sublime. Così speciale che, nella disfida mondiale ad ottobre scorso nelle valli bergamasche, si è imposta come campione del mondo delle polente prodotte con antichi mais. In pratica ha steso nel paiolo 10 polente nobili come quella a base di “Mais Biancoperla”, la “Spinosa di Val Camonica” e di mais provenienti dalla Zimbabwe e dalla Bolivia. Salito nell’arca del Gusto di Slow Food nel 2014, il “ Mays di Roccacontrada” è una riscoperta frutto di una “good practice” da copiare. Il risultato di un progetto tra Comune, Pro Loco, lo storico Alfiero Verdini, l’azienda agricola Montalbini con il contributo della Genetica Agraria della Politecnica delle Marche. Un mays che a febbraio è il focus dell’evento “Una domenica andando a polenta” e coinvolge decine di agriturismi. «Unica pecca - spiega Montalbini - è una varietà vitrea, cioè molto dura, ha bisogno di una cottura lunga. Stesa sulla tavola, 500 grammi esigono 2,4 litri acqua; se si taglia con il filo, solo 2l. Dal momento dell’ebollizione, deve cuocere un’ora e un quarto». Intanto mai addentrarsi nel regno della polenta non attrezzati: ci vuole un paiolo di rame e un mestolo di legno. Se la si vuole marchigiana, anche la spianatoia «in legno da frutta» precisa Oliviero Santinelli di Sassoferrato. Artigiano, produce a mano utensili da cucina che scolpisce nel pero, nel melo, nel ciliegio. «Più il legno è aromatico meglio è. Una volta - sentenzia - ci si faceva caso, oggi nessuno si accorge di comprare faggio».

 
 
I segreti del polentone custoditi a Piobbico
A Piobbico, ad inizio settembre, l’evento clou è il polentone alla carbonara. «Dove si trovava il carbonaio montava il trespolo, tre pali incrociati per reggere il caldaio» spiega Giannino detto “La Belva”, il presidente del Club dei Brutti, associazione che organizza la sagra insieme alla Pro loco. «Oggi c’è il ragù di carni e “suffrangoli”. Un ingrediente segreto che spolvero di persona prima che il polentone sia condito con il pecorino». Un mistero custodito solo dal direttivo degli uomini del club. Ecco la ricetta antica rivisitata dallo chef Roberto Dormicchi della scuola Alberghiera di Piobbico: 1 litro di acqua salata, 200 gr di farina di mais e 40 minuti di cottura. Rovesciare la polenta su un tagliere di legno rivestito con un panno di lino umido. Deve essere spessa qualche centimetro. Lasciare raffreddare pochi minuti e tagliare con un filo di cotone a fette sottili. Saltare in padella nell’olio 250 gr di guanciale a cubetti. Adagiare in una pirofila le fette alternate con il guanciale e spolverizzare di pecorino e pepe. Infornare a 190° per una ventina di minuti.
 
A Staffolo “La Fonte” per i cereali senza glutine
Dal 2014, nello jesino c’è un’azienda agricola che solletica la curiosità. Si trova a Staffolo, si chiama “La Fonte” ed è guidata dalla famiglia di Orlando Lillini che, con la complicità del figlio Michele, 22 anni, studente alla facoltà di Agraria ad Ancona, dell’altro figlio Lorenzo, 28 anni, e della moglie Luana volevano produrre grano e creare una filiera a km zero, dalla terra al forno, ma per problemi di burocrazia hanno cambiato obiettivo ed oggi arricchiscono il paniere della biodiversità, concentrandosi su cereali senza glutine. Producono farine di miglio, quinoa, mais, cece nero, cece rosa e il noto grano Saraceno. «Quest’ultimo si trasforma in una farina tuttavia dal sapore troppo forte per la polenta - spiega Orlando - pertanto la tagliamo con farina di mais. È una specie di Taragna valtellinese ma in versione marchigiana con la sapa e la salsiccia». Le farine per polenta sono vendute in confezioni da 600 gr e da 1 kg.
(info 339 443 4969).
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