Andreina: «Io come la Cardinale
Ma preferii il '68, che vive in me»

Andreina: «Io come la Cardinale Ma preferii il '68, che vive in me»
di Elisabetta Marsigli
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Lunedì 28 Maggio 2018, 12:05
Il Sessantotto abita qui. Nello splendido e selvaggio scenario della Gola del Furlo, la culla per una “comune” di artisti che al crinale tra Marche, Toscana e Umbria una simbiosi ideale con la natura. A crearla, non è un caso, è stata Andreina De Tomassi, insieme al suo compagno, lo scultore, Antonio Sorace. Andreina è una delle 12 “Ragazze del ‘68” scelte in tutta Italia dalla Rai, per raccontare quegli anni tumultuosi ed è forse l’unica che è riuscita a realizzare il suo sogno anticonformista.



I ricordi di mezzo secolo
Con Andreina, è inevitabile tuffarsi nei ricordi di 50 anni fa, ripescando le emozioni, gli amori e le scelte sociali di chi credeva davvero in una possibile rivoluzione culturale. Figlia di una pesarese, Andreina è nata a Milano e ha vissuto molti anni a Roma, ma alle Marche, che ha frequentato durante la sua adolescenza. è sempre rimasta legata, tanto da tornare qui, insieme al suo compagno, per fondare la Casa degli Artisti di Sant’Anna del Furlo, un eco-museo a cielo aperto, dove sono passati, in questi 9 anni, oltre 350 artisti durante il Festival dedicato alla Land Art. Dissolvenza.



L’anno delle decisioni
Il prologo di questa storia è nel 1966: Andreina non solo rinuncia a una possibile carriera nel cinema, ma la sua anima ribelle si manifesta in un primo scontro con il “potere” che segnerà la sua naturale entrata nel Movimento Studentesco. Prima dice no a Franco Giraldi che la voleva come protagonista del film La Bambolona (grazie alla sua straordinaria somiglianza con Claudia Cardinale); poi lo scontro con la professoressa di disegno: «Un giorno dovevo ritrarre l’ennesima anfora posta sulla cattedra, ma il mio sguardo era rivolto alla finestra e stavo disegnando un sole. Lei arrivò come una furia, mi strappò il disegno e mi buttò l’astuccio dei colori dalla finestra. A quel punto sono andata alla cattedra, le ho preso il registro di classe e l’ho buttato dalla finestra. Fui sospesa per una settimana, ma sono ancora fermamente convinta che fosse lei che sarebbe dovuta essere sospesa!» Fu la prima ribellione verso l’autoritarismo che, due anni dopo, avrebbe cambiato per sempre la sua vita: «Andare contro il potere del padre/padrone significava ribellarsi sia alla famiglia che alla scuola che alla fabbrica: fu una rivolta che unì studenti e operai che per la prima volta scendevano in piazza insieme».



Schiettezza e praticità
Che Andreina De Tomassi sia una donna pratica e sincera si evince in ogni suo gesto: ha energia da vendere anche oggi, instancabile organizzatrice di eventi d’arte. Nel ’68 aveva 17 anni: «Ci sono stati tanti modi di vivere il ‘68: il mio era tutto dentro il fiume del Movimento Studentesco, quello degli studenti medi, che avevano richieste molto concrete: una palestra, la libertà di espressione, la richiesta dell’aula magna per fare le assemblee, l’abolizione dell’ora di religione e del libretto delle assenze firmato dai genitori. Le occupazioni all’Università ci arrivavano come un’eco lontana.» Il suo spirito di condivisione si manifestò nell’altruismo, anche questa una dote che non ha perduto: «Lavoravo nei “baraccati”, una specie di bidonville che stava a Trastevere: erano baracche di lamiere abitate da persone “deragliate” dove io andavo a fare ripetizioni di italiano ai ragazzini.»



Un’onda lunga di almeno 10 anni
Secondo Andreina il ’68 fu un’onda lunga, che durò in realtà almeno 10 anni, crescendo piano piano, in tutti i settori: «È stata anche una rivoluzione di “costume” nel vero senso della parola: ci ha liberato dalla polvere dell’800, il padre col cappello, la mamma casalinga.». Una donna pratica, ma anche libera e indipendente.
 «L’ordine costituito non è mai esistito per me: quando entrai al quotidiano Repubblica non sopportavo il verticismo misogino e maschilista di Scalfari, tanto che lui disse al mio caposervizio “Occhio a quella matta sessantottina…” Non c’è posto come quello delle redazioni per sottolineare la disparità di genere: le donne, se sono scomode, spesso diventano inviate ed è difficile che abbiano il potere del “desk” ed è ancora così purtroppo. Iniziai a rompere le scatole sugli stipendi che erano già del 20/30% in meno dei colleghi maschi. Ma aprii anche diverse rubriche a cui feci collaborare tantissimi giovani che oggi sono giornalisti affermati».

La tendenza di quella rivoluzione
Contrariamente a coloro che “vestivano” alla ribelle, Andreina non aveva bisogno di identificarsi in un gruppo: il suo stile è sempre stato semplice e mai ricercato, quasi monacale: «Il Sistema è riuscito a mangiarti e rivomitarti: basti pensare alla “moda” del ’68: t-shirt con Che Guevara, la tolfa, l’eskimo, i capelli lunghi, le scarpe da tennis e l’abbigliamento che ricordava i figli dei fiori, che hanno creato “lo stile del contestatore”. Ho odiato tutto questo perché mi sento una purista, e a tutt’oggi non amo “agghindarmi”.» Le scarpe da tennis sì però, le servivano per la “guerriglia urbana”: a quell’età era campionessa juniores di lancio del disco, e fu proprio questa sua attitudine sportiva che la vide protagonista “sul set” del Movimento Studentesco: «Scarpe da ginnastica e via a correre da una parte all’altra di Roma: ci muovevamo velocemente sfuggendo agilmente ai “celerini”, come era chiamata la Polizia antisommossa, e fu lì che misi a frutto la mia abilità sportiva, diventando una specie di piccola fedayn…» Le brillano gli occhi e sorride, Andreina è ancora una ragazza del ’68, il suo fuoco non si è spento e continua ad alimentarsi di sogni.

Parliamo di amore
Nel 72 fece il suo primo e unico “matrimonio-campeggio” come lei stessa lo definisce: «Entrambi eravamo impegnati politicamente, con il Manifesto e il PSIUP fino al 74 quando mi iscrissi al Pci. Ma la nostra unione fu principalmente per condividere l’apertura di un negozio di cornici. Si sceglievano lavori artigianali e creativi per scappare dal Sistema che era una specie di grande occhio, da cui dovevi fuggire il più lontano possibile. L’amore per me è anche il mio essere per gli altri: un concetto molto cattolico, ma anche molto comunista. È qui che si intreccia il famoso “catto-comunismo”, perché il volontariato era comune a entrambe le ideologie». Ma anche la sua passione per l’arte è un gesto d’amore: «Mettere in scena, far brillare i talenti: mi piace fare la regia di queste cose, dare spazio, mostrare e fare conoscere. Quando ho incontrato Antonio, ben 31 anni fa, ho incontrato la tipica anima gemella: Sessantottino anche lui e aperto a mille interessi. La prima cosa che abbiamo pensato è stato organizzare la nostra fuga da Roma per venire al Furlo e costruire la nostra Comune: un posto aperto anche ai nostri coetanei. Il collettivismo è nel nostro Dna, il marchio di quelli che vogliono stare sempre insieme, in un’assemblea permanente».
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