Lo stile di Maria Cristina Loccioni
Pragmatismo, impresa e famiglia

Cristina Loccioni
Cristina Loccioni
di Lucilla Niccolini
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Domenica 23 Luglio 2017, 11:18
Negli anni dell’asilo, era già una leader. Maria Cristina Loccioni precisa: «Non davo ordini, ma ero un punto di riferimento per gli altri bambini. Mi piaceva coordinare». E rischiare: si lanciava in corse spericolate sulla motocicletta giocattolo. «Mi sono rotta un po’ di cose. Ero attratta dal pericolo e avevo una specie di abbonamento col Pronto Soccorso». Avventata? No, curiosa di entrare in confronto con realtà diverse, per interpretarle. «Ma senza grilli per la testa, con i piedi per terra».

Fin da bambina allaccia mille rapporti epistolari con amici di penna di mezzo mondo. «Ho scritto persino a Benetton, per dirgli che ero affascinata dalla sua storia imprenditoriale». Sognava di viaggiare, ma i luoghi dell’altrove sapeva visitarli con l’immaginazione. «Poi, certo, pensavo che ci sarei andata. Per questo ho scelto il liceo Linguistico».

Il nido della famiglia
Ma la famiglia, intanto, era il suo nido: babbo Enrico, mamma Graziella, suo fratello Claudio, di due anni più grande, e lei. La chiamavano «la famiglia del mulino bianco». «Forse perché ognuno era un mito per gli altri: babbo, perché viaggiava; mamma, per la sua concretezza, per la solidità dei valori. Mio fratello… be’, Claudio e io ci compensavamo, io ero più ardita, lui era un maschio: insieme giocavamo con i mostri e con le Barbie. Con lui ho imparato il tennis e ad andare in montagna, con i frati Passionisti. E anche nelle tendopoli del bivacco in Abruzzo, giocavo a fare la leader».

Già da ragazza, proiettata verso la direzione dell’impresa di famiglia? «Non saprei. L’azienda era un’altra componente della famiglia, cresceva con noi. Non ricordo una colazione, un pranzo senza che parlassimo di lavoro: non dei prodotti, delle persone. L’impresa era l’armonia della nostra famiglia, forse perché ci abbiamo passato la vita, dentro, fisicamente: da ragazzini andavamo a studiare nell’ufficio di mamma; dentro il magazzino, correvamo in bicicletta e sui pattini».

Naturale che, dopo gli studi, rimanesse lì: un posto di lavoro già ben noto. «Avevo, sì, un progetto in testa, quello in cui avrei dato l’anima, come vedevo che facevano i miei genitori. Ma non ho mai pensato di buttarmi subito a capofitto nell’impresa. Volevo vivere un’esperienza personale, crescere e mettermi in gioco. Sfidare le mie capacità. Così dopo la laurea in Economia ad Ancona, ho preferito un master sulla conduzione delle piccole aziende alla Bocconi: i prof erano consulenti aziendali, e mi proponevano i casi di studio sul campo. Se tocchi con mano, quello che impari ti rimane più impresso».

Finito il master, non se la sente ancora di tornare a casa. «I miei non si sono opposti: sono sempre stati molto disponibili ad accettare le nostre scelte. Ho mandato il curriculum a varie ditte. E sono entrata in Dolce & Gabbana. Un’azienda di moda: ma sì, mi attraeva». Ha la fortuna di essere affiancata al direttore commerciale e al responsabile della produzione. «Persone molto competenti e demanding, che lavoravano a ritmi frenetici. Mi destinarono alla organizzazione dell’impresa e alla ottimizzazione dei processi. Fantastico, come l’ambiente di lavoro».

Ma quale provinciale
Fashion designer e vip internazionali, moda e lustrini, show room e riflettori. Maria Cristina da Angeli di Rosora si sarà sentita una provinciale... «Mai. Mi sono davvero molto divertita. Dovunque, sono rimasta quella di prima. Certo, ho imparato a vestirmi con gusto, ho frequentato ambienti stimolanti. Ma noi marchigiani riscuotiamo ovunque molto successo. Facciamo simpatia. Molti a Milano non sapevano nemmeno dov’era il posto da cui venivo». 
«Le Marche? trasecolavano - continua - incuriositi da modi apparentemente in contrasto con quelli lì correnti, strutturati». Il fratello, intanto, fa il suo percorso internazionale, va a capire come funzionano le imprese in Germania, in Olanda, in Spagna. E tornano entrambi a casa: l’azienda, i genitori aspettano loro. Che sono cresciuti, conservando l’identità. «Claudio ha la progettualità di babbo, la capacità di guardare oltre, la sintesi. Da mamma, io ho preso il pragmatismo. Loro, due anime così distinte, si integravano, e ci hanno trasmesso tanto, tutto quello che per loro era importante. Soprattutto, lo stesso obiettivo, quello che avevano avuto in comune fin dall’inizio, quando avevano diciannove anni, giovani e squattrinati».

No ai lavori ripetitivi
Enrico aveva capito che non avrebbe mai fatto un lavoro ripetitivo. «E non avrebbe permesso a nessun altro di farlo. Da ragazzo, in campagna, ha inventato una pompa per portare l’acqua nelle stalle. Era innovativa e nonno l’ha subito commercializzata. Poi, babbo ha incontrato mamma, che aveva fatto Ragioneria, e hanno progettato il futuro insieme, chiedendo ai giovani laureati di fare le cose che loro non avevano mai imparato a scuola».

Ecco, mamma Graziella. Quanto vi manca? Maria Cristina sospira e sorride: «L’assenza fisica è in qualche modo compensata dalla presenza ideale. Mi spiego: ha seminato tanto, negli anni, tra noi e tutti i collaboratori, che è sempre qui, presente anche per i nuovi, quelli che non l’hanno mai conosciuta. Lei gestiva i numeri dell’azienda, ma sapeva sempre sorprenderci tutti con la fantasia delle iniziative che cementavano la comunità, pensieri e piccole premure, col gusto di offrire sempre nuove occasioni di crescita. E ancora oggi, quando nasce un’idea, qualcuno esclama: ecco, è la signora Graziella!».

L’azienda ha attualmente 500 dipendenti, per progettare e costruire strumenti di misura e valutazione real time delle prestazioni, e macchine che simulano i processi funzionali. «Su misura per ognuno dei nostri clienti: una sartoria tecnologica!». 

Fiera della marchigianità
Ride, Maria Cristina, di quel suo riso cristallino e fiero. Fiera della sua famiglia e di essere marchigiana. «Un’identità – la parola che ripete più spesso – da trasferire a chi ci sta più a cuore. Perdiamo, se non riusciamo a valorizzare quel che siamo, che ci deriva dalla tradizione contadina. Senso di responsabilità, capacità di fare, a testa bassa, con dignità e orgoglio. Tanto di bello, che non viene raccontato». Un’eredità in buone mani, da trasmettere ancora. «La mia aspirazione più grande: metter su famiglia, col mio Cristiano. E quando diciamo famiglia, intendiamo tutti e due “nell’impresa”, in armonia. Altrimenti, non potrei essere felice». Cristiano Ferracuti, lei l’ha conosciuto in Confindustria, quand’era presidente dei Giovani Imprenditori della provincia di Ancona. E lui, industriale del Fermano, lo era delle Marche. «Ci siamo innamorati perché condividiamo gli stessi valori, crediamo in qualcosa di nuovo da costruire, per noi e insieme agli altri. Fare famiglia: è il senso dell’impresa».
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