Macerata, Traini in cella si ravvede
e fa amicizia ​con i detenuti di colore

Luca Traini
Luca Traini
di Benedetta Lombo
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Mercoledì 12 Settembre 2018, 04:35 - Ultimo aggiornamento: 17:27
MACERATA - «All’inizio della detenzione non voleva incrociare nessun detenuto di colore, oggi racconta di due di loro: “Uno assomiglia a mio fratello, l’altro è un simpaticone”». Nella perizia su Luca Traini richiesta dal Tribunale, lo psichiatra Massimo Picozzi descrive i cambiamenti del tolentinate che il 3 febbraio, in un folle raid razzista, aveva sparato a sei persone di colore per vendicare la morte di Pamela Mastropietro. 

È una vera e propria conversione quella registrata dal perito nel corso dei tre colloqui avvenuti in carcere il 12, il 13 e il 16 giugno. Traini, che per Picozzi «presenta tratti disarmonici di personalità che non si traducono in un quadro patologico capace di incidere sulla capacità di intendere e volere» nel raccontarsi si è messo a nudo, ha parlato del passato, dei suoi turbamenti presenti e del sogno di sposarsi e avere un figlio, anzi una bimba.

Del suo passato Traini ha ricordato l’esperienza di sorvegliante nelle zone terremotate per tre mesi, ma anche la delusione del ritorno a casa nel vedere «le persone che avevano tutto e si buttavano via, mentre lui aveva conosciuto la disperazione di chi aveva realmente perduto ogni cosa». Ha raccontato il suo rapporto con la fidanzata con problemi di droga, della somiglianza anche fisica con Pamela e che “se non ci fosse stata lei, la faccenda di Pamela non mi avrebbe fatto tutto questo effetto”. Ha raccontato di come minacciare spacciatori e denunciarli, come aveva fatto nell’ultimo anno e di non aver avuto più fiducia nelle istituzioni. Dopo il raid, però, nel carcere di Ancona Traini qualcosa sarebbe cambiato.

«La vista – scrive Picozzi – dei segni dell’intervento chirurgico all’addome di un ragazzo da lui colpito e una lettera scritta dalla cognata dove la donna gli ricordava quali traumi il suo gesto avesse provocato ai suoi familiari, alla madre soprattutto», avrebbero minato le sue certezze. Da qui il graduale ravvedimento. «Tre settimane dopo ha visto al Tg la ragazza ferita, sofferente e allettata e ha iniziato a pensare che forse quelli con cui se l’era presa non erano obiettivi, ma persone». «Oggi – continua lo psichiatra – avverte di essere una persona utile, sente la responsabilità di “tener buoni” quanti gli scrivono lamentandosi per i problemi dell’immigrazione (dalla Francia agli Usa, dal Klan ai gruppi Lepenisti)». E pensa al futuro. «Accetta le conseguenze del suo gesto, parla di interviste, libri, di una onlus; per riabilitare la propria immagine, per rifondere le vittime. Aspetta il processo, la condanna “agli anni che saranno”, ma insieme vorrebbe intraprendere in carcere un percorso universitario che ha sempre desiderato; studierebbe storia o psicologia».

Poi il sogno del matrimonio con la fidanzata, «se lei lo aspettasse e nel frattempo si disintossicasse, lui la sposerebbe», scrive Picozzi. «Aggiunge d’avere vicino di cella un senegalese che è “un pezzo di pane”, cui ha regalato un paio di magliette; non è colpa sua, aggiunge, se è finito in carcere, è il risultato di un’integrazione sbagliata. Poi ci sono marocchini, albanesi “non è la razza che fa la criminalità, ma l’ambiente”. “Se poi conosci le persone ti accorgi che “siamo tutti poveracci”». Il processo va avanti, oggi Picozzi sarà sentito in aula.
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